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Sanità
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“Anch'io mi ammalai di Covid. Un minuto dopo aver chiuso la zona rossa. Ogni sera facevo visita alla centrale della Prefettura e ci contagiammo tutti, io ero il più grave”. La corsa all’ospedale, il ricovero d’urgenza e un lungo periodo di terapia intensiva.  

Ha ancora nello sguardo quei momenti terribili, mentre racconta le fasi iniziali della pandemia nel Lodigiano. Il prefetto Marcello Cardona, 64 anni, oggi a Roma come Commissario per le iniziative in favore delle vittime dei reati di mafia e violenti, era a capo della Prefettura di Lodi quando esplose l’epidemia e il 22 febbraio del 2020 fu costretto a chiudere in casa 47mila persone in 10 comuni, controllandole con i militari e istituendo posti di blocco alle uscite. Una "decisione difficilissima", ricorda. 

“L’impatto sul territorio fu inizialmente di sgomento, poi ogni settore ha saputo trovare una risposta allo smarrimento collettivo”.  “Si fece subito un lockdown totale, e i lodigiani, con grande consapevolezza, diedero un contributo importante. Per noi, al di là di mandare le camionette dei militari, si trattava di garantire ai cittadini i servizi essenziali, anche se nessuno, per paura di ammalarsi, voleva entrare nella zona rossa neanche per scaricare un sacco di farina. Nonostante l’incognita sanitaria, insomma, bisognava portare il cibo nei supermercati, i medicinali alle farmacie, tenere pulite le strade: ecco le problematiche molto concrete che abbiamo dovuto affrontare, insieme con il presidente degli industriali e il presidente della Camera di Commercio”.

Oggi abbiamo dimestichezza con l’emergenza pandemica e conosciamo tutti i dispositivi di protezione, ma a febbraio 2020 non avevamo neppure le mascherine, racconta il prefetto Cardona. “Ricordo che quando si riunirono tutti i sindaci del Lodigiano, soltanto uno si presentò indossando un respiratore. Lo guardammo come un marziano… non ci rendevamo conto della situazione, eppure eravamo nell’epicentro della pandemia. Figuriamoci nel resto d’Italia… La domenica chiamai gli uffici a Roma per chiedere di mandarci al più presto gli igienizzanti: qualcuno addirittura mi chiese perché telefonavo in un giorno festivo…  di lì a poco, purtroppo, dovettero ricredersi tutti”.  

L’incendio è divampato in fretta, dopo i primi contagi. “Ogni sera i sindaci del territorio mi riferivano decine e decine di decessi quotidiani, e quando alla fine del lockdown la gente è tornata nelle piazze, in tanti mancavano all’appello. Oggi queste cose le ho metabolizzate, come uomo e come prefetto, ma sono più vulnerabile alla sofferenza degli altri”. 

L’esperienza della malattia è stata determinante. “All’ospedale ho guardato la morte negli occhi, ho sofferto soprattutto la solitudine… ma ho capito che anche la sofferenza può avere un senso, solo soffrendo possiamo comprendere davvero cosa significa”.

“Dopo la malattia qualcosa in me è cambiato – aggiunge -: mi sono ripreso completamente, eppure avverto ancora un senso di magone, tristezza, paura. Cerco di trasformare questi sentimenti negativi in qualcosa di positivo, attraverso il lavoro: come servitore dello Stato e dei cittadini, voglio contribuire a migliorare le cose. E sa qual è il punto fondamentale? Avevamo costruito una bella società, ma ci siamo dimenticati degli ultimi, degli anziani, dei più deboli”.    

L’emergenza sanitaria non ha fatto che esasperare le cose, acuendo i problemi e le criticità già esistenti, dalla povertà ai reati violenti come i crimini domestici.

“Quando vedo le persone dormire per strada vorrei poter intervenire come Stato. Lo dico non da una prospettiva da libro cuore, ma con convinzione istituzionale. Ci sarà meno delinquenza quando avremo un apparato organizzativo che guardi a 360 gradi”.

La pandemia, insomma, ci ha costretto a leggere pagine dolorose, ma ora è il momento di guardare avanti, lavorare, lavorare. “Sono molto fiducioso nei giovani, ad esempio quando vedo le mie figlie, rispettivamente 26 e 29 anni, che sono così combattive. Del resto, quelli che vengono dopo di noi sono sempre un po’ migliori, vero? L’importante è indicare loro la strada, con scritti e azioni: lasciare qualcosa che sia produttivo ed essere generosi intellettualmente, se vogliamo porre le basi di un futuro migliore”.  

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